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(Questo articolo è del 2016. Parla di quando nel 2014 facevo la pendolare tra Milano, Ovada e Genova).

La sensazione di vera appartenenza ad una comunità sta qui. Succede quando meno te lo aspetti, quando leggi “RITARDO: 25 minuti” e incassi il colpo davanti al tabellone come un piccolo calcio negli stinchi, alle 19.37 di un mercoledì sera. Giri la testa da un’altra parte. Fissi il vuoto e per un secondo incroci il tuo stesso sguardo, segnato proprio come il tuo, negli occhi del tizio spiegazzato che sta dall’altra parte della banchina.

È lì che lo senti.

Che sei un pendolare. E che non sei solo.

Lo capisci in quell’istante (è un senso di sollievo appena refrigerante) che sei parte di una comunità. È sotterranea, non esplicitamente dichiarata e si porta quasi tutti i giorni il pranzo nel tupperware perché non è solo una questione di risparmio, è che non puoi mangiare sempre panini.

È stato bello, in quel momento.

È stato bello riconoscersi.

Solidarietà, scattata in automatico e in silenzio quando ho riconosciuto in chi mi stava di fronte il rito quotidiano della borsa computer appoggiata proprio in quel certo modo, dello sguardo di sufficienza con cui si squadra il passeggero occasionale, l’occhiaia perpetua e indelebile di chi si alza prima di tutti.

È un ritmo che ti schiaccia quello del pendolare, ma schiaccia anche altri, che comunque ce la fanno. E quindi poi ce la fai anche tu.

Bisogna parlare per sentirlo questo essere parte. Bisogna chiedere.

“A che ora ti alzi tu?”. Non c’è bisogno di insistere, perché c’è orgoglio (motivato) nel racconto che arriva veloce delle sveglie alle 5, delle case che si vedono solo con la luce del week end, del “sono 12 anni che faccio questa vita”,  un po’ a denti stretti, un po’ scherzando.

Oggi so che sono fuori da quella roba. A lavorare ci vado a piedi. Potrei ricaderci di nuovo però, perché si sa che il mondo del lavoro è liquido.

Oggi vado a Milano, rientro in giornata. La mia vita, penso, non è più quella.

Salgo sull’intercity che è in ritardo. Davanti a me c’è un ragazzo di 30 anni con il completo, la borsa computer e uno zainetto troppo ingombro perchè non ci sia dentro un contenitore di plastica a chiusura ermetica.

Mi appoggio al sedile, respiro l’odore ferroso delle foderine dei sedili.

Finalmente mi rilasso.

Se sei stato pendolare una volta lo sei per sempre.